Il Cordaio di Cattolica

Dall’antico mestiere di cordaio, la famiglia Marchini di Cattolica, ha proseguito, nell’arco di un secolo, sviluppando l’attività nel settore delle reti da pesca fino ai giorni nostri e, ancora a livello artigianale, cerca di soddisfare le esigenze attuali della marineria romagnola. Sono rimasti a svolgere questo lavoro i fratelli Marchini (Giorgio e Alessandro), i quali hanno dato vita nel 1986 alla Marchini Cattolica Reti s.n.c. (sempre lì, in via Risorgimento, fin dai tempi del nonno), rilevando l’azienda che fu del padre Arturo. Certamente, come ditta artigianale, rappresenta oggi un mestiere più unico che raro, Giorgio e Alessandro ci raccontano questa bella avventura. Da ammirare la scelta di Giorgio Marchini, che con una prestigiosa laurea in Economia e Commercio, che gli avrebbe spalancato facili possibilità di impiego, ha scelto di proseguire la “romantica” attività della famiglia. Maria Rosa, 49 anni e Davide 36 hanno scelto altre strade lavorative.

“Tutto iniziò da nostro nonno Melchiorre Marchini (per gli amici ‘Marchioli), che agli albori del secolo scorso cominciò a trattare con la canapa. Da qui prese spunto il soprannome ‘Canaven’, e ancora noi ce lo portiamo dietro.

Dopo la costruzione del molo di Cattolica e in concomitanza con le prime barche da pesca a vela, ci fu la necessità di approvvigionarsi di funi (allora chiamate reste) con le quali trainare le reti; così nacque il progetto di Melchiorre Marchini di fabbricare le corde. All’inizio, ovviamente tutto a mano, la canapa veniva compressa con dei bastoni per ricavarne i filati che venivano allungati e poi intorciliati per essere poi assemblati nel formato di corda. Si ricavavano anche, dalla pettinatura della canapa, dei fili molto resistenti adoperati per le nascenti reti, che venivano chiamati ‘sparazina’. Importante era anche la ‘stoppa’ un ricavato dagli scarti della canapa, ma molto usata nei cantieri. Verso la fine degli anni venti, la vera rivoluzione fu una grande ruota di legno che si girava a mano, la quale permetteva la costruzione della fune di canapa a lignoli, allungandosi su dei cavalletti di legno lungo dei sentieri all’aperto. Alcuni ricordano che i luoghi cittadini prediletti per questo lavoro erano Presso il Lungomare, la spiaggia (in inverno) e in via Carpignola. Poi la ruota di legno divenne un rudimentale macchinario di ottone, di cui il nipote Giorgio ha un vago ricordo d’infanzia. Dapprima l’iniziativa di nostro nonno per portare a compimento questa nuova idea di lavoro, si servì di molto sudore e di alcuni lavoratori che come lui subirono il fascino, nell’incoscienza di allora, di credere in quella prospettiva, ma soprattutto c’era la necessità di trovare il modo di sfamare le proprie famiglie.

Poi questa primitiva attività di cordaio, venne intrapresa dopo l’ultima guerra, insieme a nostro padre Arturo (‘al Curder’). Egli fu determinante nel far crescere ulteriormente e migliorare questo mestiere, a tal punto che riuscì a contrapporsi alle migliori tradizioni delle zone Picene. Arturo introdusse l’uso del Catrame per rivestire le corde in questo maniera si consentiva alla fune una migliore resistenza alla corrosione marina. Interessante è il fatto che, da allora, le corde adibite per la pesca a strascico, ancora oggi vengono comunemente chiamate ‘calamenti’. Infatti, seppure oggi il termine tecnico di queste funi è cavo misto, in quanto fabbricato industrialmente da un componente di materiale sintetico (che ha sostituito la canapa) conglobato insieme ad un cavo d’acciaio, viene comunque usato da più parti il termine ‘calamenti’.

Ovviamente con l’introduzione dei macchinari la lavorazione delle corde seguì l’impostazione industriale, spegnendo la primitiva seppur onorevole attivit? di nostro nonno Melchiorre. Ma nostro padre Arturo, non si perse d’animo: dalla lavorazione delle corde passò a quella delle reti. Infatti, dopo essersi iscritto nel 1959 all’Albo degli Artigiani e dopo una breve esperienza da pescatore e seguendo le orme di anziani retieri di banchina, si accorse di esserne innamorato e dotato per questo mestiere.

Tutto avvenne intorno alla metà degli anni Sessanta, anche in coincidenza del fatto che il filato di nylon subentrò come materia prima nella fabbricazione di corde e reti al posto delle fibre vegetali. Le reti di cotone fatte a mano con il caratteristico ago e cannello, vennero tessute nei macchinati delle nascenti fabbriche con il filato di natura sintetica, ma ovviamente più resistente. Nostro padre Arturo, in pratica, svolgeva una lavorazione simile alla sartoria: in parole povere, i teli di rete venivano tagliati, cuciti e si mettevano insieme i vari pezzi per costruire la rete da pesca. La sua arte lo rese così famoso, che ancora oggi, a circa dieci anni dalla sua scomparsa, in tutti i porti, da San Benedetto del Tronto sino a Chioggia, ne ricordano le sue opere di lavoratore impareggiabile. Si segnala che, in quest’area dell’Adriatico dove si lavorava essenzialmente per i pescatori, questo tipo di attività a livello di ditta, era portato avanti da poche persone. Anche gli stessi pescatori, soprattutto i pensionati, hanno sempre svolto queste mansioni inerenti alle riparazioni delle reti. Poi questo mestiere, verso la fine degli anni’70, Arturo lo svolse con i propri figli, proseguendo una tradizione famigliare ricca di quei valori artigiani che non si possono dimenticare. Il nostro lavoro principale riguardava l’allestimento della rete da pesca a strascico (in gerco ‘tratana’): sia quella da fondale che la sernipelagica. Quest’ultima è ancora chiamata ‘volantina’; trattasi, per chi se ne intende, di quella costruita a ‘bracci spaccati’, che rappresenta la pietra angolare delle migliori tradizioni pescherecce di Cattolica. Infatti con l’avvento di questo tipo di rete, si è potuto migliorare la qualità del pescato.

Per la rete a strascico, che è fatta a forma d’imbuto, con una parte superiore di filato più leggero retto a strisciare sul fondale, la parola caratteristica che fa riferimento al suo montaggio è quella di ‘armamento’, ed è ancora in uso. L’armamento, più in particolare, significa assemblare (o unire) le corde di sostegno, chiamate ‘lime’alla bocca’ della rete stessa. Questo lavoro può essere fatto unicamente a mano con l’ago e il filo. A seconda del tipo di barca e del luogo di pesca, si applicano varie impostazioni d’armamento. Padre e figli hanno avuto esperienze anche nell’ambito delle fabbricazioni di reti a ‘cianciolo’ di grandi dimensioni (chiamate ‘lampare’), che servivano per la pesca del pesce azzurro. Intomo alla metà degli anni Ottanta, abbiamo esportato questi tipi di reti nel Nord Africa, e anche in altri Paesi come il Sultanato dell’Oman lavorando per conto della Fao. Arrivando ai nostri tempi anche a causa della diminuzione del lavoro nel reparto della pesca, la nostra attività si è incanalata verso una certa flessibilità, rendendo la nostra materia prima adatta a diversi scopi. In primo luogo ci riferiamo alla produzione di recinti per campi sportivi e soprattutto, nostro fiore all’occhiello, per il gioco della pallavolo sulla spiagge. Adottiamo una rete di valida resistenza a maglia quadra, rinforzata perimetralmente tutta a mano. Sulle spiagge della nostra riviera, con orgoglio, possiamo dire che in tanti stanno utilizzato i nostri recinti. Di conseguenza, dopo i pescatori, la nostra clientela si è arricchita di operatori turistici, associazioni sportive, enti pubblici, fino alla massaia per il filo da stendere i panni.

Non possiamo qui dimenticare, che negli ultimi vent’anni, abbiamo intensificato anche la produzione di reti per la ‘Piccola pesca’. In particolare si tratta delle ‘retine da posta’: si chiamano così perché vengono calate sul fondo dei mare con l’intenzione di lasciarle lì, e solo dopo qualche ora, a seconda del tipo di pesca che si desidera praticare, vengono salpate a bordo del natante, che di solito è di piccole dimensioni. Da sempre queste sono conosciute come ‘reti d’imbrocco che sono fatte in modo semplice in modo tradizionale con il ‘tremaglio ‘ (le antiche ‘cerbere )e vengono usate nelle zone costiere. Queste retine attualmente vengono armate con una moderna corda incorporata di piombo, insieme ad una rete di filato leggero e trasparente chiamato monofilo, un materiale che ha consentito di migliorare notevolmente questo tipo di pesca rispetto al passato. Con la rete in genere ci applichiamo anche a fare piccolo oggetti artigianali, quali le amache, retini portapesci, retini da spiaggia, e altro. Ci siamo dedicati anche alla commercializzazione dei prodotti inerenti all’allestimento dei motopescherecci.

Siamo stati impiegati anche a fabbricare delle gabbie di rete che servivano agli impianti in cui si coltivavano particolari specie di pesce (acquacoltura). Fuori dal settore marittimo, siamo stati chiamati a svolgere lavori d’ornamento vario,nei quali emergeva la nostra vena artistica trovando ampi consensi. Fra le varie opere svolte, vogliamo citare l’omamento alla fontana ideata da Tonino Guerra in piazzale Roma a Riccione. Nel ’95 abbiamo fatto dei lavori per il Parco Acquatico Traiano di Civitavecchia. I biologi del Parco Navi di Cattolica da noi sono di casa. In conclusione dobbiamo però sottolineare che oggi il nostro lavoro artigianale si sta svolgendo più in modo occasionale che continuativo, riscontrando un certo rallentamento. Con, molta difficoltà cerchiamo di mantenere in vita un’arte che appartiene alle più belle tradizioni cattolichine”.

di Gianluigi Lucarelli

La Piazza di Rimini – Giornale di Cattolica
 
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