Ricette tipiche di Cattolica della vigilia di Natale

La riscoperta della cucina popolare e dei suoi piatti tipici.

Fino a metà del secolo scorso, quando il ‘boom’ economico è andato progressivamente ad alterare anche ritmi di vita e consumi alimentari, l’arte della cucina popolare, si innestava sul doppio binario dei cicli stagionali e del calendario liturgico. La preparazione del cibo, era orchestrata “dalle lune, dai santi e dai patroni, dalle vigilie e dalle feste legate al ciclo agrario, dal carnevale e dalla quaresima, dalle nascite, dalle morti e dai matrimoni”, ed era espressione di un sapere collettivo, a tutti gli effetti parte integrante della cultura di un territorio. I piatti della tradizione infatti non vanno intesi come una dimostrazione di creatività individuale; sono piuttosto la manifestazione dei caratteri di una società ed anche un risultato delle dinamiche economiche di un territorio. Le ricette antiche diventano così una fonte per conoscere la storia di una comunità ed il loro recupero, con la riscoperta dei piatti tipici, al di là dell’indiscutibile godimento per il palato e della curiosità di riscoprire antichi sistemi di trasformazione del cibo, serve ad evitare che si perda quel comune serbatoio di conoscenze e di valori, scanditi dal susseguirsi delle stagioni, propri del procedere lento della vita quotidiana del passato.

A Cattolica l’antico dolce della Vigilia di Natale è il Miacetto.

I Sapori dell’inverno e i piatti tipici dell’Avvento.
In passeggiata attraverso la città per godere una mostra di allegorie, di riti e simboli del Natale ricostruiti, attraverso immagini e scenografie, nelle vetrine dei negozi lungo le vie cittadine. Un itinerario che immette in una magica atmosfera, fatta di suggestioni, colori, profumi e sapori. Passando da una vetrina all’altra si potranno raccogliere poi le ricette dei tipici dolci natalizi delle diverse regioni italiane ed europee. In alcuni ristoranti verranno proposti per tutto il periodo natalizio i piatti della tradizione: minestre e pietanze della vigilia, i cibi della festa e, naturalmente i dolci più rappresentativi di questo territorio a cavallo tra Marche e Romagna.

RICETTE TIPICHE DELLA VIGILIA DI NATALE A CATTOLICA

Aringa ingentilita in insalata di patate
Scottare l’aringa sulla fiamma perchè così la pelle si gonfia e viene via più facilmente. Togliere la testa e cercare di togliere le spine senza rompere i filoni di uova che servono per la preparazione del piatto.Tagliare via la parte ventrale piena di spine in modo da avere dei filetti che andranno messi a bagno nel latte per 12 ore. In seguito tagliare i filetti di aringa a strisce sottili o a dadini, mescolarli alle patate lessate tagliate a rondelle e condire il tutto con olio extravergine d’oliva, un pochino d’aglio, una spruzzata di aceto e prezzemolo.

Minestra con i ceci
Piatto tipico della vigilia di Natale.
Maltagliati (pasta all’uovo fatta in casa tirata col matterello e tagliata in modo irregolare), ceci, rosmarino, aglio e olio extravergine d’oliva sono gli ingredienti di questa minestra popolare. Cuocere il cece dopo averlo lasciato a bagno per 12 ore in acqua fredda, in abbondante acqua assieme ad uno spicchio d’aglio e a un rametto di rosmarino. A cottura ultimata cuocervi i maltagliati e condire direttamente nel piatto con un filo d’olio extravergine d’oliva.

Risotto al brodo di “Baganelli”
Ingredienti per 4 persone: gr. 300 paganelli e gr. 200 galere, gr. 360 riso, 1 costa di sedano, 2 carote, 3 cucchiai di pomodoro, 1 spicchio d’aglio e 1 ciuffo di prezzemolo, 1/2 bicchiere di olio extravergine d’oliva, 1 bicchiere di vino Trebbiano di Romagna DOC, sale e pepe q.b. Pulire i pesci eliminando le interiora e squamando i paganelli, immergerli in una pentola di acqua fredda assieme alle verdure, salare e far bollire lentamente per 1/2 ora circa. Passare il tutto attraverso un telo quindi strizzare il composto ottenendo così un brodo denso e profumato. In un tegame tostare il riso assieme ad uno spicchio di aglio nell’olio extravergine d’oliva, sfumare con il vino, aggiungere il pomodoro e farlo cuocere aggiungendo il brodo un po’ alla volta. A fine cottura il risotto dovrà risultare “all’onda”. Eliminare lo spicchio d’aglio e cospargere con il prezzemolo tritato.

Baccalà in umido
Ingredienti per 4 persone: Kg. 1 baccalà già bagnato, 4 patate medie, 4 carote, 2 gambi di sedano, due manciate di cipolline, 6 cucchiai di pomodoro passato, 1/2 bicchiere di olio extravergine d’oliva locale, 1 bicchiere di Rebola DOC “Colli di Rimini” sale e pepe q.b. In un tegame capiente versare l’olio extravergine d’oliva, sistemare le verdure tagliate grossolanamente, adagiare il baccalà dalla parte della pelle tagliato in 3 o 4 parti, aggiungere il pomodoro, pepare e far rosolare leggermente. Sfumare col vino bianco quindi aggiungere acqua calda fino quasi a coprire il tutto. Far cuocere lentamente con il coperchio e dopo una ventina di minuti verificare il grado di salatura e aggiungere le patate tagliate a spicchi. Completare la cottura sempre a fuoco lento.

Una volta… ma anche oggi, a Natale nelle case cattolichine:
il miacetto ed i cappelletti in brodo.

Quando il Natale arriva fuori, nelle strade e nelle vetrine… non è uguale a quello che arriva dentro. Dentro di noi arriva quello dei ricordi. Soprattutto i ricordi dell’infanzia dove il Natale si colloca con una struggente dolcezza, direttamente proporzionale agli anni che ci separano dal tempo in cui siamo stati bambini. Per cui più quel tempo è lontano e più lo idealizziamo nel nostro cuore dal quale annualmente ritiriamo fuori il prezioso scrigno di ‘quelle’ immagini, ‘quelle’ musiche, ‘quelle’ poesie, ‘quelle’ lettere piene di brillantini e ‘quei’ profumi particolari. Così il kit natalizio della memoria si dispone a essere rimontato per il consueto magico allestimento. Le immagini e i suoni di quel ‘tempo perduto’ sono più facili da registrare e da conservare, anche meccanicamente. Gli odori e sapori invece, si basano solo sulla memoria sensoriale di ciascuno. Ma anche nella memoria collettiva della nostra città, un particolare profumo di Natale ritorna puntualmente. Il Natale cattolichino, ormai da secoli, non può prescindere da due speciali odori che promanano dalle case durante queste feste: l’odore del miacetto e quello dei cappelletti in brodo. E’ vero che oggi il miacetto, molte donne ormai lo comprano già pronto perché (dicono) non hanno assolutamente il tempo di prepararlo, però così si privano di due piaceri: quello di inondare la casa di un delizioso aroma di agrumi e frutta secca tostata e quello di far partecipare i familiari al rituale della preparazione: chi taglia la scorza di limone e arance, chi schiaccia le noci, chi trita le mandorle, chi lava l’uvetta… I bambini si divertono poi tanto a fare gli aiuto-cuochi. Però il profumo di Natale che si avverte nel miacetto lo si sente comunque quando lo si avvicina alla bocca. E prima di mangiarlo, uno strano odore d’oriente ci entra nel naso e ci dice: “E’ ancora Natale!”. Il miacetto, essendo un dolce senza grassi animali, si poteva consumare anche durante la vigilia che imponeva (una volta) una stretta osservanza della precettistica religiosa con un menù “di magro”. Mangiare carne la vigilia, equivaleva ad un vero sacrilegio che nessuno, nemmeno gli atei del buon tempo antico, si sognavano di commettere. Le loro donne, come tutte le altre, la vigilia di Natale preparavano minestra con i ceci e baccalà con le patate. Le alternative erano tonno e uova con insalata.
Un altro rito della vigilia, rimasto fino agli anni ’60, era quello di andare al forno a cuocere il ciambellone che era comunque il dolce per eccellenza di tutte le feste: Pasqua, Natale, comunioni e matrimoni. Il ciambellone si aggiungeva al miacetto e alla pagnotta pasquale oppure accompagnava una semplice festa in famiglia. Era segno di un giorno speciale o dell’accoglienza di un ospite. Nei giorni delle vigilie delle due principali festività, i fornai mettevano allora a disposizione delle donne del paese, i loro tavoli da lavoro e i loro forni per preparare e cuocere i dolci delle feste. Sotto Natale era tutto un profumo di miacetti e ciambelloni. Per riconoscerli si mettevano sporgenti sotto l’impasto, bigliettini di carta gialla dove erano scritti i nomi delle cuoche che aspettavano trepidanti la cottura dei dolci nella speranza che i propri uscissero meglio degli altri nel confronto finale. Nel qual caso tutte le altre donne ne avrebbero chiesto il segreto. Chi non ricorda per il pranzo di Natale, il penetrante profumo dei cappelletti in brodo che avvolgeva tutta la casa mentre i bambini aspettavano ansiosi l’apertura della bella letterina piena di brillantini messa sotto il piatto del babbo? Oh, lui fingeva sempre di stupirsi di quel piatto rovesciato sulla busta e aprendola diceva immancabilmente: “Ma chi sarà?” E noi ad incalzare: “Leggila!” E dopo la lettura elargiva all’autore quella benedetta mancia che permetteva di andare al cinema in ogni giorno di festa e spese pazze al carrettino di Anto. Una vera pacchia. Poi c’era lo scambio degli auguri e il pranzo di Natale aveva inizio mentre il profumo di brodo inalava di beatitudine i polmoni. Ai cappelletti seguivano il bollito misto con mostarda e spinaci al burro, cotechino con purè e pollo a pezzi rosolato nel tegame con patate al forno. A fine pranzo, mentre si apriva il Panettone Motta e sulla tavola arrivavano anche, miacetto, ciambellone e torrone, al figlio più piccolo toccava recitare la poesia: “Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne…”. Il babbo apriva una bottiglia di Asti a suggellare la festa e mentre i bambini affondavano il viso nella fetta di panettone, inebriandosi di quel profumo misto a canditi, già si accordavano con sguardi d’intesa per uscire di casa al più presto a spendere ‘quei pochi soldi di felicità’.

L’origine del miacetto. Cappelletti e tortellini. I brodetti di pesce. I garagoli.

Tanti piatti che consideriamo rigorosamente della nostra tradizione, non sono affatto di origine autoctona, ma sono frutto di contaminazioni culturali lontane nello spazio e nel tempo. Ogni paese, ogni territorio propone con giusto orgoglio i “piatti tipici” della propria tradizione. Giustamente. C’è in questo comportamento una voglia di trasmettere una precisa identità culturale, storica e geografica. Anche quando invitiamo qualcuno a pranzo, con i piatti che offriamo ai nostri ospiti, cerchiamo di presentarci, dire loro chi siamo attraverso una certa ricetta o della nostra tradizione familiare o copiata (si spera bene), da qualche guru della cucina più innovativa. La tavola è anche questo: punto d’incontro di storie, di gusti, di viaggi. La tavola unisce, consolida relazioni affettive e sociali perché il rituale del cibo è un rituale della vita. Eppure tanti di quei piatti che consideriamo rigorosamente della nostra tradizione, non sono affatto di origine autoctona, ma sono frutto di contaminazioni culturali lontane nello spazio e nel tempo che spesso attengono anche a simbologie religiose molto radicate a livello popolare.
Viene subito in mente il “Miacetto”, il “nostro” dolce di Natale. Ha tutte le caratteristiche di un dolce arabo e probabilmente la sua origine risale al ‘400, quando una colonia veneta di famiglie provenienti dall’Istria, Venezia e Caorle, si stabilì a Cattolica per svolgervi attività “piscatorie”. Portarono gli agrumi che venivano dalla Cina attraverso Venezia. Così anche per la cannella e tutte le altre spezie che dall’oriente arrivavano in Italia con le navi dei dogi. L’uva sultanina, oltre a conferire il caratteristico gusto al miacetto, prefigura anche un significato augurale di fecondità e ricchezza che si concilia con il calendario liturgico: il tempo della nascita e della gioia. Grandi protagoniste della nostra tradizione popolare di Romagna (e della vicina Toscana), sono le zuppe, che rappresentavano l’alimento base dei poveri. Gli ingredienti principali erano: strutto o lardo, aglio o cipolla, erbe di campo, acqua e pane secco di cicerchia o di farro. Poi è arrivato, con il pane bianco, il “pancotto” con brodo di carne o solo olio di oliva, ritenuto, fino a pochi decenni fa, un cibo perfetto per vecchi (senza denti) e malati. Le minestre brodose sono sempre state una caratteristica della Romagna, a differenza delle paste, più presenti nella ricca Emilia. La dicotomia storico-culturale tra Emilia e Romagna si evidenzia anche a tavola: le radici bizantine della Romagna videro, fin dai tempi più lontani, sulle nostre tavole il consumo del pesce, che aveva anche una connotazione religiosa legata al suo significato penitenziale dei periodi di osservazione di “magro”, oltre che connesso a un’economia a base di pesca. Sempre in Romagna si consumavano i formaggi e le carni ovine, suine e avicole, mentre in Emilia, le radici longobarde, favorivano il consumo di quelle equine e asinine. Con il benessere, anche il nostro territorio ha acquisito le paste. Tuttavia una certa differenza è rimasta ugualmente nei due piatti tipici delle feste: i cappelletti romagnoli sono ripieni di ricotta, formaggio grattuggiato, carne di pollo, maiale e vitello, uovo e noce moscata (da Venezia). I tortellini emiliani sono ripieni di carni diverse, senza ricotta, uovo e cannella. Differenza pure nelle forme: a cappello di prete nell’anticlericale Romagna e ad anello nella raffinata ducale Emilia. Sono comunque accomunati dalla cottura in brodo, che da noi è il vero modo tradizionale di gustarli, mentre i tortellini asciutti ormai imperversano in tutte le salse. Sulla nostra costa ancora tengono certe minestre del tempo antico come la zuppa di ceci e vongole e i quadrettini in brodo con piselli e seppie. Sempre più rari i tagliolini in brodo di carne che erano il piatto delle feste dei primi decenni del secolo scorso. Ancora molto radicati, per fortuna, il brodetto e la seppia con i piselli, che un tempo si faceva con le fave, un prodotto molto più a buon mercato. Sul brodetto si potrebbe aprire un contenzioso infinito con le Marche e con Fano che ne ha fondato addirittura un’Accademia. Il nostro, anzi i nostri, dato che ogni famiglia ne fa uno suo (come per il miacetto), derivano sempre da scambi che i nostri pescatori facevano con i colleghi marchigiani e veneti. Quello tradizionale era con mazzola, scorfano, seppia, pesce ragno, gattuccio, sogliola, tremulo e canocchia su base di olio, aglio, cipolla, vino e pepe. Oggi vi si è aggiunto il prezzemolo, il peperoncino, il pomodoro fresco, i crostacei e le cozze. Una vecchia ricetta di brodetto di canocchie, di chiara origine veneziana è con una base di molta cipolla e le quattro spezie regine: pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano. E’ un piatto squisito. E così pure i garagòli (“garagòi”) di Marotta, lavati e cotti nell’acqua di mare e insaporiti con olio, aglio, sale, pepe, vino, conserva, finocchio selvatico, mentuccia e una misteriosa polverina ottenuta da un miscuglio di erbe aromatiche raccolte sul monte Catria e fatte essiccare. Ma anche i nostri garagòli cattolichini (“garagùl”), a bontà, non erano da meno. Pur non disponendo della “polverina misteriosa”, gelosamente custodita dai marottesi, i nostri marinai li cucinavano con ingredienti più veneziani: oltre al soffritto base di Marotta, vi aggiungevano le quattro spezie regine, (con abbondanza di pepe), scorza di arancio e di limone. Era un piatto da gustare in compagnìa, accompagnato da generoso Sangiovese. I garagòli erano il tipico mangiare che si portava nei pic-ninc del Lunedì di Pasqua. Ora sono quasi introvabili nei ristoranti e si fanno raramente anche in casa perchè richiedono molto lavoro di preparazione preliminare: lo sbroccamento delle punte con le tenaglie. La nostra terra di confine quindi ha quasi perduto un piatto prelibato della tradizione primaverile, legato particolarmente ai giorni della Pasqua di quando eravamo più poveri. Contemporaneamente, dalle Marche, ne abbiamo acquisito un altro dello stesso periodo: la pagnotta salata al formaggio. Ma questa è un’altra storia.

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